La Corte di cassazione, con l’Ordinanza n. 22985 del 21 agosto 2024, ha rimesso alle Sezioni Unite la decisione se debba o meno essere restituita la NASPI percepita dal lavoratore, nel caso in cui il contratto a termine venga considerato illegittimo e quindi trasformato a tempo indeterminato, con effetto retroattivo.
Nel caso sottoposto al giudizio della Suprema Corte, un dipendente, dopo aver ottenuto in sede giudiziale la conversione retroattiva di un contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato, si era visto richiedere dall’INPS la restituzione delle somme percepite a titolo di NASPI.
Più precisamente, il lavoratore, dopo la cessazione del contratto a termine aveva chiesto la NASPI, in quanto privo di occupazione, e nel frattempo aveva impugnato il contratto stesso chiedendone l’illegittimità e la conseguente trasformazione.
Il giudice del lavoro ha accolto il ricorso e ha disposto la conversione del contratto con efficacia retroattiva, condannando il datore di lavoro anche al risarcimento del danno.
L’INPS ha quindi chiesto la restituzione della NASPI fruita dal lavoratore, poiché la sentenza, avendo effetto retroattivo, annullava lo status di disoccupazione che dà diritto all’indennità.
Sulla questione vi sono due orientamenti giurisprudenziali contrastanti, da un lato quello che propende per la restituzione della NASPI percepita perché considerata un indebito (Cass. 24645/2023), e dall’altro quello che ritiene che la NASPI non debba essere restituita perché il lavoratore è rimasto effettivamente disoccupato, dopo la cessazione del contratto a termine (Cass. 3463/1987 e 1777/1991).
La Corte di cassazione ha quindi chiesto alle Sezioni unite di risolvere definitivamente la questione.