La normativa sul whistleblowing ha l’importante obiettivo di proteggere i segnalanti da possibili ritorsioni o sanzioni derivanti dalla denuncia di comportamenti illeciti all’interno dell’ambiente di lavoro. Tuttavia, questa salvaguardia non rappresenta un’autorizzazione indiscriminata a compiere atti illeciti, né tantomeno una giustificazione per comportamenti fraudolenti o dannosi. La recente sentenza n. 17715/2024 della Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, chiarendo i limiti di tale tutela e le conseguenze in caso di abuso.
Il principio di protezione del segnalante
La legge sul whistleblowing nasce con l’intento di incoraggiare i lavoratori a segnalare illeciti o violazioni che possono danneggiare l’ente per cui lavorano o la collettività. La paura di subire ritorsioni, come licenziamenti o sanzioni disciplinari, spesso trattiene i dipendenti dal denunciare tali comportamenti. In risposta a questa problematica, la normativa introduce meccanismi che garantiscono una protezione per il segnalante, impedendo che egli venga penalizzato per aver agito nell’interesse della giustizia e della trasparenza.
Whistleblowing e illeciti autonomi
Tuttavia, la protezione garantita non si estende a comportamenti illeciti compiuti dallo stesso segnalante. La sentenza n. 17715/2024 della Corte di Cassazione chiarisce che, sebbene il whistleblower sia tutelato per il fatto di aver denunciato, tale tutela non può essere invocata per esonerarsi da eventuali responsabilità per atti illeciti che il segnalante stesso ha commesso, sia autonomamente che in concorso con altri soggetti. Il whistleblowing, quindi, non costituisce uno “scudo legale” che annulla la responsabilità personale di chi, oltre a denunciare, è coinvolto in attività illecite.
Abuso del whistleblowing e conseguenze disciplinari
Un ulteriore aspetto fondamentale che emerge dalla sentenza è il riconoscimento dell’abuso del whistleblowing per fini personali. Se un dipendente utilizza la segnalazione di presunti illeciti con il solo scopo di gettare discredito su colleghi o sull’ente, strumentalizzando la normativa per vendette personali o per guadagni illegittimi, egli può essere soggetto a sanzioni disciplinari severe, fino al licenziamento per giusta causa.
In altre parole, la protezione offerta dalla normativa non copre coloro che agiscono con malafede o intenzione malevola. Il whistleblowing deve essere uno strumento per promuovere la trasparenza e la legalità, e non per ledere la reputazione di altre persone o entità. La Corte, in questo senso, si è espressa con chiarezza: l’uso distorto della denuncia non solo viola i principi etici alla base della normativa, ma può legittimare l’azienda a prendere provvedimenti drastici, incluso il licenziamento.
Implicazioni della sentenza
La sentenza n. 17715/2024 stabilisce un precedente importante per la gestione dei casi di whistleblowing in Italia. Essa riafferma la necessità di bilanciare la tutela del segnalante con la responsabilità individuale di ciascun dipendente. L’abuso di questo strumento, come sottolineato dalla Corte, rappresenta un comportamento che può compromettere la fiducia tra il datore di lavoro e il dipendente, oltre che minare la finalità stessa del whistleblowing, ovvero quella di favorire un ambiente lavorativo onesto e trasparente.
In conclusione, mentre la normativa sul whistleblowing continua a rappresentare una pietra miliare nella lotta contro gli illeciti aziendali, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17715/2024, ha ribadito che il sistema di protezione non è incondizionato. Chi abusa di tale normativa per scopi personali, gettando discredito sui colleghi o sull’ente, si espone al rischio di sanzioni disciplinari, incluso il licenziamento per giusta causa, ribadendo la necessità di una condotta responsabile e trasparente in ambito lavorativo.